Le tre età della donna – Gustav Klimt

La mamma è una cosa seria. Essa si sacrifica da quando noi nasciamo. Essa produce il latte per noi. Quando siamo piccoli produce il latte, perché è un mammifero: per ciò si chiama mamma… – “Io speriamo che me la cavo”

Non potevo che esordire così, con le battute naif tratte dal mio film preferito. Perché la mamma è davvero un animale capace di tutto. Ti tiene dentro di sé per 9 mesi infischiandosi delle diete e della moda. Ti insegna a camminare. Piange con te se non vuoi andare all’asilo, ma poi, ferma, ti spiega che ci devi stare lì per il tuo bene. Ti insegna a cucinare e, se proprio sei un caso pietoso come me, ti insegna come convincere un uomo a cucinare per te. Perché la mamma è, prima di tutto, una donna che nella sua maternità (stavo per scrivere mammosità e mi piaceva pure questo neologismo)  ha accentuato una dote che le è stata regalata alla nascita: la pazienza. Lei che è abituata a vedersi cambiare con il ciclo delle stagioni, ha imparato anche ad aspettarci, durante la gravidanza, durante le notti brave, durante la nostra perenne follia. Lei che ci ha insegnato a camminare, ci ha anche sostenuto in quei momenti che non sembravano voler filare nel modo giusto. Lei che non ci giudica, ma è sempre pronta ad avvertirci giusto un secondo prima che cadiamo e ci facciamo male. Lei che ci sarà per sempre, anche quando ci sentiremo troppo cresciuti per avere ancora bisogno di lei, anche se siamo nati storti, cercatori di guai, per lei rimarremo sempre i più…meglio. Lei che imparerà a stare dietro le quinte, ma che sarà sempre la persona che ha sacrificato del suo tempo per farcene guadagnare a noi. 

E’ con questa riflessione che Klimt giunge all’apogeo della sua carriera da pittore. Gustav Klimt Vienna 1862-1918, è stato il padre della Secessione austriaca: voleva darci un taglio proprio con l’arte accademica che l’aveva fatto nascere come un talentuoso pittore d’impressioni en plein air. Rielabora l’ornamentalità dell’arte giapponese, che gli era tanto piaciuta e, per reinventare quella che era diventata una moda, ne tira fuori quello che ci fa dire ancora oggi – appassionati di arte e non- questo dev’essere propro un Klimt. Il tema prediletto è quello della delicata sfera femminile: l’infanzia, la maternità, l’amore “troppo umano” e la vecchiaia, condito da una tragicità infinita che anticipa la disperazione, l’erotismo cupo, di Kokoshka e Schiele, i suoi allievi.

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Die drei Lebensalter – 1905 – olio su tela, 180x180cm – Museo Nazionale d’Arte Moderna (Roma)

Le figure sintetiche, i celebri sarcofagi klimtiani, si materializzano sul fondo geometrico che ricorda l’oro, le sete raffinate e le pietre preziose. Questo intreccio ornamentale vuole essere un’illusione per fondere insieme l’architettura alla pittura. Per farlo, il pittore utilizza le tecniche dell’arte applicata: le foglie d’oro e d’argento, il collage e il mosaico.  Con questo gioco di volumi, un riprendere sia l’horror vacui (la paura del vuoto tipica del troppo pieno del medioevo barbarico) sia la molecolarità del puntinismo, ottiene una luminosità che si riscatta da colori colori spenti, saturi, come se per avere del virtuosismo bisognasse rinunciare alla naturalità, come se si sapesse già in partenza che la perfezione e l’arte in realtà non esistono che nella nostra spaziosa mente illusoria.

Questa tela, un’accozzaglia di equilibri cercati a forza, segue il ritmo della vita. I colori, contraddizioni di inesteticità ben mescolate tra loro (come a ricordarci la psiche femminile), vanno da quelli teneri della fanciulla, a quelli sensuali della madre adulta, fino a giungere a quelli consumati dell’anziana donna vissuta, la saggia. Allegoricamente, Klimt vuole rappresentare un cammino di vita che va dalla spensieratezza, all’amore intenso, fino alla solitudine e al raccoglimento del ricordo. La ragazzina ha vissuto un sogno, aggrappandosi alla madre la quale, a sua volta, china sulla figlia, si è unita a lei formando un tutt’uno (rappresentato dalle stoffe che le legano insieme). Ma dopo il tempo di una vita, questa donna, rimasta sola (però serena), vive l’ultima parte della sua vita, quella argentea e spirituale che la porterà verso il baratro nero della morte. Da notare, che tutte le tre figure non possono vedere, sono cieche: la prima non ne ha interesse, la seconda non vuole vedere il tempo che passa, la terza non vuole ricordare. Essere madre: condizione beata, oppure un sacrificio troppo grande, a conti fatti, per una vita così breve? Klimt non si sbilancia, ci enumera i pro e i contro, ma – essendo anche un uomo- lascia a noi la scelta.

Klimt sembra essere il maestro dell’esasperazione, ma da maestro ne sa fare un monumento, quello della storia di una vita. Questa donna, che sembra la madre di tutte le donne, sta in silenzio e osserva gli altri e sé stessa. Nell’età della giovinezza ha guardato con occhi vividi e spalancati l’inconsistenza della sua bellezza, da madre è stata vigile e attenta, china sulla progenie e, oggi, in vecchiaia, si sta facendo sempre più da parte, sempre più indifferente, sempre più conscia del suo incredibile sacrificio, una specie di Cristo in croce al femminile. Si può dire che Klimt sia stato uno dei pochi artisti a scindere la donna dall’allegoria di angelo – demone dell’amore, capace di elevarla a madre, nel suo senso più terreno e passionale, tra gli errori e rimpianti, ma sempre un essere originario e privilegiato.

Auguri mamma (in ritardo, come sempre)!

Caspar David Friedrich – “Un Uomo e una Donna davanti alla Luna”

Da un fantomatico Facebook di fine Ottocento:
Jack Leo: “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?”. A casa Vicino a Recanati. A Silvia piace questo post. Il Giovane Werther commenta: “Qua la mano fratello!”

A parte gli scherzi, non riuscirei a trovare un poeta più azzeccato di G. Leopardi per introdurre questa tela di C.Friedrich. Fuori piove. Ogni volta che piove,ormai c’è da aver paura a quanto si è evinto dalle ultime pagine di cronaca. E di chi è la colpa? Dell’uomo? Della Natura? di Dio? Di Berlusconi? Dell’Inter? Dei nostri ex?

Caspar David Friedrich (Greifswald, 1815 – Dresda, 1840), il papà del Romanticismo tedesco, ebbe una vita degna del suo movimento artistico-letterario. Nacque in una famiglia numerosa che tirava a campare grazie alla fabbrica di sapone del padre; una sorella morì di morte bianca, un’altra per un incidente, addirittura, un fratello morì nel tentativo di salvarlo durante un gioco finito male su una lastra di ghiaccio. Anche sua madre morì quando lui era ancora molto giovane e, se si aggiunge l’educazione pietista, un must nella cultura ottocentesca tedesca, che incitava a vivere una vita ascetica e lontana dal peccato e dalla tentazione, si comincia a capire il perché di tutta quella malinconia cosmica che segnò il suo operato. Ciò nonostante, si affermò ben presto come pittore, si accattivò la stima dell’alta borghesia e, destando lo stupore dei suoi amici benestanti e beoni, sposò una ragazza del volgo. La favola romantica (e scusate la retorica) andò avanti finché, a causa di un’ ipotetica malattia celebrale, il pittore impazzì nel vero senso della parola. Diventò diffidente verso tutti (anche della moglie), perse le referenze e le committenze, si stancava per un nonnulla e, alla fine, perì. Non ricorda un po’ anche a voi un eroe romantico, l’Adelchi di Manzoni?

Die deutsche Romantik, o meglio, il Romanticismo crucco, nasce quando quì da noi si stava cercando di incollare tra loro i cocci che avrebbero formato l’Italia e in Germania, invece, già si parlava di Nazione e di Nazionalismo, dell’ Io, della Patria e di tutti quei sostantivi che si scivono con la Maiuscola. Il tema principale della pittura romantica, in particolare quello di Friedrich che ne fu il maestro, è il rapporto tra uomo e natura. L’uomo viene al mondo in una natura che è matrigna. Una natura sconfinata e infinita che lo crea finito e impotente, destinato a una misera fine. La Natura non è che Dio in Terra, un Dio che terrorizza e rasserena, e l’uomo è soltanto una caduca manifestazione del Creato. Constatato che la vita è un apri gli occhi e già si è fatta notte, l’uomo si trova davanti a un bivio: inorridire per la catastrofe o cogliere il sublime, tendere all’infinita perfezione inebriandosi della straordinaria bellezza della natura. Da ciò deriva lo spiritualismo del sentimento che valorizza la pura interiorità dell’uomo, i suoi sentimenti spesso estremi e contraddittori, che derivano dal sentire profondamente l’ineluttabilità della morte. L’uomo, tra l’altro, nasce e muore da solo, è soltanto un puntino minuscolo al cospetto dell’universo. Allegoricamente, l’uomo al cospetto di taluni paesaggi, suggestivi e magici, si sente così, solo nell’infinito, come la malinconia che prende il leopardi sul sempre caro ermo colle e che lo fa sentire come un naufrago rassegnato e sconfitto all’interno del mare che è la vita.

Mann und Frau in Betrachtung des Mondes, 1830–35, olio su tela, 34 x 44 cm, Alte Nationalgalerie (Berlino)

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Berlino, è morto l’orso Knut

Lo Zoo di Berlino è in lutto: per cause ancora sconosciute, vicino alla vasca della sua gabbia è stato trovato senza vita l’orso Knut.

Ve lo ricordate quel batuffolo bianco che quattro anni fa aveva commosso il mondo con la sua storia. Ripudiato dalla mamma, Knut era stato cresciuto dai guardiano dello Zoo di Berlino conquistando una presenza mediatica degna di una pop star.

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