Google festeggia Alessandro Manzoni

Era il 7 marzo 1785 quando a Milano nasceva uno dei più illustri scrittori italiani: Alessandro Manzoni, quello del romanzo I promessi sposi, le odi Marzo 1821 e Il Cinque Maggio, le tragedie Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi.

Oggi il doodle di google (solo la versione italiana) festeggia il 227° anniversario della sua nascita con un omaggio ai personaggi de I promessi sposi: ci sono Renzo e Lucia, la Monaca di Monza e fra’ Cristoforo, don Abbondio e don Rodrigo.

Caspar David Friedrich – “Un Uomo e una Donna davanti alla Luna”

Da un fantomatico Facebook di fine Ottocento:
Jack Leo: “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?”. A casa Vicino a Recanati. A Silvia piace questo post. Il Giovane Werther commenta: “Qua la mano fratello!”

A parte gli scherzi, non riuscirei a trovare un poeta più azzeccato di G. Leopardi per introdurre questa tela di C.Friedrich. Fuori piove. Ogni volta che piove,ormai c’è da aver paura a quanto si è evinto dalle ultime pagine di cronaca. E di chi è la colpa? Dell’uomo? Della Natura? di Dio? Di Berlusconi? Dell’Inter? Dei nostri ex?

Caspar David Friedrich (Greifswald, 1815 – Dresda, 1840), il papà del Romanticismo tedesco, ebbe una vita degna del suo movimento artistico-letterario. Nacque in una famiglia numerosa che tirava a campare grazie alla fabbrica di sapone del padre; una sorella morì di morte bianca, un’altra per un incidente, addirittura, un fratello morì nel tentativo di salvarlo durante un gioco finito male su una lastra di ghiaccio. Anche sua madre morì quando lui era ancora molto giovane e, se si aggiunge l’educazione pietista, un must nella cultura ottocentesca tedesca, che incitava a vivere una vita ascetica e lontana dal peccato e dalla tentazione, si comincia a capire il perché di tutta quella malinconia cosmica che segnò il suo operato. Ciò nonostante, si affermò ben presto come pittore, si accattivò la stima dell’alta borghesia e, destando lo stupore dei suoi amici benestanti e beoni, sposò una ragazza del volgo. La favola romantica (e scusate la retorica) andò avanti finché, a causa di un’ ipotetica malattia celebrale, il pittore impazzì nel vero senso della parola. Diventò diffidente verso tutti (anche della moglie), perse le referenze e le committenze, si stancava per un nonnulla e, alla fine, perì. Non ricorda un po’ anche a voi un eroe romantico, l’Adelchi di Manzoni?

Die deutsche Romantik, o meglio, il Romanticismo crucco, nasce quando quì da noi si stava cercando di incollare tra loro i cocci che avrebbero formato l’Italia e in Germania, invece, già si parlava di Nazione e di Nazionalismo, dell’ Io, della Patria e di tutti quei sostantivi che si scivono con la Maiuscola. Il tema principale della pittura romantica, in particolare quello di Friedrich che ne fu il maestro, è il rapporto tra uomo e natura. L’uomo viene al mondo in una natura che è matrigna. Una natura sconfinata e infinita che lo crea finito e impotente, destinato a una misera fine. La Natura non è che Dio in Terra, un Dio che terrorizza e rasserena, e l’uomo è soltanto una caduca manifestazione del Creato. Constatato che la vita è un apri gli occhi e già si è fatta notte, l’uomo si trova davanti a un bivio: inorridire per la catastrofe o cogliere il sublime, tendere all’infinita perfezione inebriandosi della straordinaria bellezza della natura. Da ciò deriva lo spiritualismo del sentimento che valorizza la pura interiorità dell’uomo, i suoi sentimenti spesso estremi e contraddittori, che derivano dal sentire profondamente l’ineluttabilità della morte. L’uomo, tra l’altro, nasce e muore da solo, è soltanto un puntino minuscolo al cospetto dell’universo. Allegoricamente, l’uomo al cospetto di taluni paesaggi, suggestivi e magici, si sente così, solo nell’infinito, come la malinconia che prende il leopardi sul sempre caro ermo colle e che lo fa sentire come un naufrago rassegnato e sconfitto all’interno del mare che è la vita.

Mann und Frau in Betrachtung des Mondes, 1830–35, olio su tela, 34 x 44 cm, Alte Nationalgalerie (Berlino)

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“Il richiamo di Garibaldi” di Domenico Induno

Cari Fratelli d’Italia (ma anche Sorelle),
L’abbiamo tanto aspettato e, soprattutto criticato, questo 17 marzo 2011 e, finalmente, eccolo qui questo giovedì di fine inverno. Come definirlo, allora, questo compleanno di mamma Italia? Io la chiamerei una festa memorabile, una di quelle che, se ti va bene, passano una sola volta nella vita come la cometa di Halley.
L’Italia esiste da 150 anni, se la matematica non inganna, ma partimo dall’inizio di questa storia. No, non racconterò le vicende dei Mille (che, in realtà, erano qualcuno in più perché, da sempre, se c’è una festa ci devono essere pure gli imbucati): le peripezie di Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele la conoscono quasi tutti e, del resto, ne sono pieni i libri. La nostra storia comincia con un tale che rispondeva al nome di Massimo D’Azeglio e che di mestiere faceva, alternativamente, il politico e l’artista. L’Italia era nata soltanto da un giorno e costui, intelligentemente, fece notare al simpatico quartetto che aveva cucito insieme gli stati e gli staterelli dello Stivale in stile patchwork: “Purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani”.
A dire il vero, anche oggi si fatica a trovare degli aggettivi adatti per descriverci e che, possibilmente, mettano d’accordo tutti. Noi Italiani, non c’è che dire siamo molto abili a insultare la nostra Patria, ma guai se lo fanno gli altri! Guai se ci riducono a un piatto di pasta, cosche mafiose e un suonatore di mandolino! A parte il fatto che io ho visto il mio primo mandolino a diciassette anni in un museo d’oltralpe, sono d’accordo: gli Italiani non sono solo questo. Sono il tatuaggio I love Mama; sono tutti davanti alla tv a vedere il cielo Azzurro sopra Berlino o in piedi sul divano perché Valentino c’é; sono la Divina Commedia letta in tutto il Mondo; sono la notte degli Oscar di Sofia Loren che si commuove nell’annunciare che the winner is RoBBerto.
E’ questo che ci deve rendere orgogliosi di essere italiani, anche se negli ultimi tempi qualche buontempone ha fatto credere che l’Italia é solo un bel vaso con dentro parecchi fiori avvizziti o marci. Oggi é tempo di riscattare i nostri pregi perché chi si diverte a deriderci possa rimanere di stucco, positivamente sbalordito.
E da dove cominciare? Guardiamo, ad esempio, la forma indefinita delle altre nazioni europee; l’Italia, invece, ha la particolarissima sagma di uno stivale. Così, anche la storia del nostro Paese é unica nel suo genere. Mentre le maggiori potenze europee, quali l’Impero Asburgico, la Francia e l’Inghilterra, parlavano di nazione e nazionalismo, noi eravamo ancora divisi in sette stati e in mano a svariate corone che ci scambiavano come figurine. Durante un soggiorno a Weimar (Germania), non a caso scambiai la statua di F. Schiller a cavallo davanti alla biblioteca della duchessa Anna Amalia con una statua di Garibaldi. Mentre in Germania era in voga la Sturm und Drang, la tempesta di sentimenti e l’inquietudine nella ricerca della propria identità, mille e rotti garibaldini partivano per costruire l’Italia più o meno come la vediamo oggi.
Anche la corrente dei macchiaioli é del tutto Made in Italy. si può dire che essa costituisca la variante pittorica del Verismo, movimento letterario di cui, sicuramente, ricorderemo Giovanni Verga con i suoi Rosso Malpelo, I Malavoglia e la Storia di una Capinera.  Il leitmotiv dei Macchiaioli era il Patriottismo tradotto in paesaggi a campo aperto, vedute di campagna, in cui il punto non esisteva, ma solo macchie di colore. Questo approccio all’arte nacque in Toscana, tra l’altro il primo stato a credere nell’Italia unita e la culla della Lingua Italiana, dove si stavano rifugiando, man mano, tutti i patrioti lombardi, tra i quali D. Induno. Oggi si coglie l’occasione di fare dibattiti e talkshow su tutto, ma i Macchiaioli crearono un’arte che parlava del popolo per il popolo. Ancora non esisteva una lingua unitaria italiana e , anche A. Manzoni si chiedeva in quale idioma avesse dovuto scrivere I Promessi Sposi, perciò quest’arte si pone come mezzo per gemellare gli italiani.
Domenico Induno (Milano 1815 – 1878), fortemente influenzato dall’espressività romantica dei dipinti del contemporaneo F. Hayez, sull’onda degli eventi risorgimentali, dipinse un quadro che intitolò “Il Richiamo di Garibaldi” (42,4x53cm – olio su tela – 1854 – Collezione Bentivegna).
I personaggi di questa composizione molto semplice, basata su giochi di diagonali, spiccano sullo sfondo impolverato grazie alla sapiente calibratezza tra colori vividi e puri, quelli del Tricolore. E’una scena famigliare di donne e bambini che restano a casa e di uomini che partono in guerra.
Il quadro costituisce uno spaccato sulla vita dell’Italiano medio del tempo. E’ una persona umile e, per certi versi, derelitta: anni di prigionia non hanno fatto altro che aggiungere miseria alla miseria. In casa sua vengono esposti strumenti rurali perché lui é un uomo che lavora la terra italiana che può dare ancora frutti. Sebbene abbia una dimora povera, sporca, una catapecchia, non manca di appendere al muro un crocifisso perché la gente semplice ci crede ancora in Dio.
Questa scena di genere, teneramente patetica e molto meno ampollosa di come l’avrebbero dipinto i colleghi romantici, ci mostra come non sia stata una passeggiata unire gli stati italici per formare l’Italia, come il richiamo di Garibaldi abbia spezzato gli affetti quotidiani. Probabilmente, Induno prese spunto dall’Iliade di Omero per dipingere questi due coniugi come Ettore e Andromaca e il figlioletto Astianatte con l’aggiunta di una quarta persona, una donna alla finestra, qui simbolo di speranza. La moglie é accasciata sul letto disperata. Il marito, non più giovane, parte in guerra sebbene sia ferito perché é un dovere morale andare a liberare l’Italia. Proponendo un evento storico con un risvolto intimo, il pittore fa sì che il dramma di un singolo diventi collettivo. Amare l’Italia, essere patrioti, significa unirsi nel dramma del sacrificio, difendere l’Italia perché é solo battendoci per essa che manterremo i nostri doveri affettivi.
D’Azeglio aveva ragione, a modo suo. L’Italia, seppure non sia che un lembo di terra sul Mappamondo, tiene unite persone che, avendo una lingua diversa (i dialetti, ma anche le lingue dei nuovi italiani, gli immigrati), hanno anche una cultura diversa: é questo che ci deve far sentire onorati.
Così, se dovessi descrivere cosa vuol dire essere italiani, citerei, ad esempio, la mia famiglia.
Mia mamma viene da Rodolo, un piccolissimo paese di montagna in provincia di Sondrio: polenta proponibile ad ogni pasto, pochi mesi d’estate, Heide, le caprette e l’attitudine a lavorare tanto e a parlare poco. Mio papà, invece, viene da Cortale, un comune dell’entroterra catanzarese: una spruzzata di peperoncino, qualche passo di tarantella e interminabili pranzi conviviali durante le feste. Mamma é razionalità e papà é passione, ma, per rispondere alla domanda canonica tu vuoi più bene alla mamma o al papà?, non posso che dire entrambi, perché uniti si completano. Quindi, la mia famiglia é tricolore: il bianco della neve sull’Adamello, il verde del basilico profumato sul davanzale a casa della nonna paterna… la tovaglia rossa della festa che unisce attorno a un tavolo una famiglia ben amalgamata. L’Italia, per me, é questo e ne vado fiera. Perciò, non importa di che sesso, razza, squadra, partito, religione o ceto siate: buon 17 marzo a tutti, di cuore!

“La Grande Odalisca” – Jean Auguste Dominique Ingres

Jean Auguste Dominique Ingres (Montauban, 1780 – Parigi, 1867) , uno sbarbatello vagamente belloccio, quasi una brutta copia di Luca Argentero, fu uno dei più onorati e famosi pittori francesi. La sua fama é dovuta al suo talento come ritrattista di personaggi a lui contemporanei (come Napoleone Bonaparte) e ai suoi nudi femminili orientaleggianti.

Arbitrariamente, viene collocato tra i Neoclassici, ma si può dire che Ingres, per l’epoca in cui visse e dipinse, costuisca un approccio all’arte totalmente originale . Allievo di J. L. David, il Neoclassicismo in persona, dal quale erediterà soltanto l’equilibrio delle composizioni di forme idealizzate, soggiornò per lungo tempo a Roma dove studiò a fondo il Rinascimento, specialmente quello di Raffaello. Polemizzava sugli ideali romantici ed è forse per questo motivo che, sfogliando un libro d’arte, lo si trova nel capitolo del Neoclassicismo. Tuttavia, anche se l’artista riuscì a fondere l’ispirazione storica dei Neoclassici alla passione rivoluzionaria dei Romantici, contrariamente alla maggior parte dei suoi colleghi, non aveva né interessi politici, né interessi ideologici poiché era interessato all’arte solo come disciplina fine a sé stessa. Questo, però, non ci deve indurre a pensare che il pittore fosse una persona frivola, una sorta di esteta alla Dorian Grey.

Infatti, ciò che lo distinse dagli altri artisti dei primi dell’Ottocento, fu il suo modo d’intendere l’arte. Secondo lui, ciò che era veramente  importante in un’opera non era “chi”, cioè il soggetto, ma il “come”, cioè la forma. Questo voleva dire che non bisognava dipingere la psicologia, o meglio, il dramma dei personaggi (basti pensare che il best seller di suoi tempi era “I Promessi Sposi” di A. Manzoni), ma definire la loro oggettività, ciò che si può percepire tramite i quattro sensi. Soprattutto, Ingres enfatizzò il valore della superficie delle cose, cioé la forma che gli oggetti hanno al tatto. Per la prima volta nel corso della storia dell’arte, la forma non fu più un archetipo, un’idea eterna e già data, ma il risultato di uno studio, qualcosa di mai uguale ed esperibile dal pittore che da sensitivo divenne un fotografo. Quindi, stando all’idea dell’artista, non esiste nessuna filosofia estetica, in quanto ogni oggetto ha una sua estetica diversa, essendo l’oggetto solo una forma e non la spiegazione di un concetto. Così, il Bello diventa tutto ciò che si può vedere e un’opera si distingue dall’altra a seconda dalla prospettiva da cui si osserva l’oggetto di studio. Per questo, furono artisti impressionisti come E. Manet ad ispirarsi a lui in quanto dipingevano le mutevoli visioni di un attimo che non ritornerà mai più.

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“Grande Odalisque”, 1814, olio su tela, 162×91, Musée du Louvre (Parigi)

La Grande Odalisca era stata commissionata ad Ingres da Caroline Murat, sorella di Napoleone e moglie del re di Napoli Gioacchino Murat e pensata in coppia con un altro nudo che però andò perso durante i moti del 1848. Questo “sogno orientale”, realizzato durante il soggiorno romano dell’artista, è uno dei primi dipinti che nascono come rifiuto alla rappresentazione dei “soldatini” di Napoleone e, soprattutto, è il primo nudo non mitologico della storia dell’arte (di solito, era Venere ad essere rappresentata senza veli). Continua a leggere

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