Preferisco essere come San Tommaso e Buona Pasqua

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L’incredulità di San Tommaso – (1600-1601) – olio su tela di 107 × 146 cm Bildergalerie Sanssouci, Potsdam – Germania


Tommaso is cool
Nella mia personale classifica degli apostoli (sì mi piace mettere ordine anche tra i santi e affini) sin da sempre il mio preferito, meritevole dell’Oscar per il migliore discepolo di Cristo forever è senza dubbio alcuno il barbuto Tommaso Didimo di Galilea, detto San Tommaso per gli amici cristiani e Patrono degli Architetti, dei Geometri, degli Agrimensori, dell’India e del Pakistan.


Al Catechismo
Mentre i compagniucci erano affascinati dai racconti dei miracoli di Gesù, dal gallo di San Pietro e da quella sagoma di San Giovanni che a me è sempre stato insopportabile perché era il cocco della Madonna, io stravedevo per Tommason.
Il tipo più umano della combriccola, che magari compare poco nei vangeli, ma che in occasione della Resurrezione si è comportato come avrei fatto io al suo posto.


Cristo è risorto!
Un discorso questo che cade a fagiolo proprio in questi giorni e che mi sono appuntato in questo post immaginandomi ‘sti tizi seduti a rimuginare sulla brutta fine del loro Maestro morto crocifisso sul Golgota, che se lo vedono riapparire sulla uscio di casa come tornato dalla villeggiatura, avvolto in un lenzuolo come se avesse appena finito una seduta di massaggi alla spa. Vabbè che erano abituati a vedere Gesù che faceva miracoli un giorno sì e pure l’altro, ma eccoli che nemmeno senza riflettere subito si mettono in ginocchio a ringraziare Dio, passando dalla più tetra prostrazione per la grave perdita, alla gioia del tutto e bene quel che finisce bene.


Il coraggio del dubbio
Solo Tommaso ha avuto il fegato di chiedere a Gesù la prova che era davvero risorto. Ci vuole coraggio per mettere in dubbio anche le cose belle che ogni tanto ti accadono. E mica per mancanza di fede, ma proprio perché il proprio credo è cosa importante: io Tommaso lo capisco. Tutti abbiamo dubbi che nascondiamo sotto lo zerbino della coscienza ben consci del confort assicurato dalla fede cieca. Avere dubbi è lavoro faticoso per cui bisogna essere portati: è cosa giusto qualche santo, un paio di geniacci e una miriade di indefessi cercatori di verità paralizzati dall’indecisione.


L’essenza della curiosità 
Esseri curiosi (almeno nel senso positivo del termine, ben lungi dall’invadenza e dal pettegolezzo) sta sopratutto nell’avere il coraggio di porre le domande scomode anche quando si sa che la propria voce sarà l’unica ad alzarsi dal coro ad infrangere l’assordante silenzio dello status quo. Stai pur certo che se la tua domanda era corretta gli altri poi ti seguiranno.


L’incredulità di San Tommaso
Nel suo dipinto del 1600 pure il Caravaggio, mentre il santo con le tempie corrucciate è intento a ravanare con il dito la ferita al costato di Cristo, fa avvicinare alla scena altri due apostoli, altrettanto curiosi, ma incapaci dell’audacia di manifestare direttamente il proprio scettiscismo.
Una ricercata disposizione geometrica delle quattro figure contro uno sfondo completamente spoglio con le teste di Cristo, del santo e delle altre due figure a creare un simbolico quadrifoglio.
Che magnifica scena! E che taglio di luce! Chapeau a Michelangelo Merisi.


Vorrei essere come…
Una volta avuta la prova, pure San Tommaso s’inginocchierà davanti a Gesù Cristo, pronto a prendersi la lavata di capo dal Maestro che gli dirà “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati coloro che non videro e tuttavia credettero!”. Ma sono sicuro che Tommaso non si è mai rammaricato per il suo dubbio, trovando in cuor suo il coraggio delle persone intelligenti di ammettere i propri sbagli e pronto a ricascarci di nuovo incredulo pure dell’Assunzione in cielo della Madonna, ma questa è tutta un’altra storia…


 

Maledetta primavera, per fortuna al tempo di Monet c’erano ancora le mezze stagioni

Tipo quando ti svegli una mattina con gli occhi abbuffati conciati peggio di quando ti sei infilato a letto. Il naso che pizzica e sgocciola, la testa indolenzita, proprio il giorno in cui dovevi essere al cento per cento per via di quella riunione importante in ufficio.
Ma che diavolo è mai successo?

Ti sei coricato che era fine inverno che la mattina presto per strada c’era la nebbia e ti sei svegliato in piena primavera, pacchetto tutto compreso: sole sopra i venti gradi e nuvole di polline in omaggio. Se tua nonna continua a mormorare che non ci sono più le mezze stagioni non è per via che è rimbambita e ripete cose a caso, ma perché oramai è così e lo ha scritto pure sul suo account su twitter: – Ti giri un attimo, chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra stagione – (1000 retweet e 1000 cuoricini).

Ovvio che il tuo corpo segua le vecchie leggi naturali in vigore dai tempi della nonna di tua nonna: non è che se di punto in bianco te ne vai in giro con la polo a mezze maniche, quando il giorno prima tremavi se non indossavi i guanti, ti puoi sentire bene. E’ arrivata la primavera insieme all’irritante malessere da cambio di stagione e alle insopportabili allergie.

Perché i prati raggrinziti della sera prima, si sono magicamente trasformati in un trionfo di fiorame che nemmeno nei giardini reali delle favole e ovviamente cresce di tutto, ma di più crescono le graminacee e tutte le altre erbacce infestanti a cui sei allergico.

Devi fartene una ragione e cantare anche tu come la Goggi: «Che fretta c’era… maledetta primavera!».

Ha ragione Loretta e pure tua nonna. Una volta era diverso. La sera dopo cena Continua a leggere

«Ave Maria in trasbordo» – Giovanni Segantini

Ci sono dipinti a cui ci sentiamo «legati» per talune ineffabili ragioni, che sin dalla prima volta che li abbiamo visti, sono riusciti a catturare il nostro sguardo sperduto e anche il nostro cuore. A chi ci chiede di esprimere a parole questa indissolubile affinità possiamo solo rispondere che hai solo scoperto la tua anima.

Segantini

Istantanea_2015-10-03_22-32-05Il pittore Giovanni Segantini (n. Arco 1858 – m. sullo Schafberg, Engadina, 1899) è stato allievo per tre anni dei corsi serali dell’Accademia di Belle Arti Brera che, secondo i principi di Giuseppe Parini, doveva essere provvista di raccolte di opere d’arte che servissero da modelli agli studenti in maniera tale da stabilire un legame tra la formazione artistica ed una più vasta preparazione culturale.

Sensibile all’influenza dell’ambiente milanese e della tradizione romantica del verismo lombardo esordì dipingendo con densi impasti materici nature morte, vedute e soggetti d’ispirazione letteraria.

Nel 1880 conosce Bice, la donna che gli sarà compagna per tutta la vita e, con lei al seguito, si trasferisce in Brianza, a Pusiano. Qui inizia a lavorare grazie al sostegno economico del pittore, gallerista e critico artistico milanese Vittore Grubicy de Dragon in stretta collaborazione con il compagno d’accademia Emilio Longoni. In questi anni Giovanni Segantini, lavorando a più diretto contatto con la natura agreste, schiarì gradualmente i colori della tavolozza e approfondì le ricerche sulla luce in numerosi paesaggi e scene agresti: la sua arte tenta di distaccarsi dalle impostazioni accademiche giovanili, ricercando una forma espressiva più personale e originale.

La tosatura

La tosatura delle pecore, olio su tela, 1883-1884. Tokio, The National Museum of Western Art.

Al periodo brianteo corrispondono anche i primi grandi riconoscimenti dell’artista, sia in Italia che all’estero: nel 1883 Ave Maria a trasbordo vinse la medaglia d’oro all’esposizione internazionale di Amsterdam, mentre l’anno dopo La tosatura delle pecore venne premiato ad Anversa.

Preludio di quel divisionismo di cui Giovanni Segantini insieme a Pellizza di Volpedo si contendono il primato, il dipinto, olio su tela, cm. 120 x 93, del 1882 dell’Ave Maria a trasbordo è stato realizzato con una tecnica pittorica fondata sull’uso di colori sottoposti a scomposizione.

La scena si svolge nell’atmosfera serale del lago di Pusiano, nell’alta Brianza lombarda: sullo sfondo l’abitato di Bosisio Parini con le prime ombre del tramonto a cui il pittore riesce a contrapporre in tutta la sua forza, la luce del sole calante che s’irradia centrale alle spalle del guscio dell’imbarcazione. I raggi, resi Continua a leggere

“In lettura al mare” di Vittorio Matteo Corcos

«Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto […] un ricordo talmente dolce […] che ancora oggi, se ci capitano tra le mani i libri di un tempo, li sfogliamo come fossero gli unici calendari conservati dei giorni passati e ci aspettiamo di vedere, riflessi sulle loro pagine, le case e gli stagni che non esistono più.»

[inizio del saggio Sur la lecture (Del piacere di leggere), Marcel Proust]

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Vittorio Matteo Corcos, In lettura al mare, 1910, olio su tela cm 130×228, collezione privata

Cosa sarà mai tutta questa voglia di apparire? Se lo sarà pure chiesto Vittorio Matteo Corcos (1859-1933) che ha fatto del ritratto il suo mestiere e la sua arte. In un epoca lontana dai selfie chi ne aveva la possibilità cercava un’artista per immortalarsi su tela.

A cavallo tra la fine dell’ottocento e gli anni prima dello scoppio della Grande guerra i pittori italiani vengono dapprima investiti dall’ondata di rinnovamento che in Francia avrà i suoi araldi negli Impressionisti e che in Italia  darà origine ad un rinnovamento antiaccademico della pittura in senso verista con i Macchiaioli, iniziatori della pittura moderna italiana.

Corcos

Autoritratto di Vittorio Corcos, Galleria Uffizi, Firenze

La pittura dei  Postmacchiaioli succede cronologicamente a quella macchiaiola, che si avvicinerà maggiormente alla cultura dell’impressionismo francese. Fu il pittore livornese Alfredo Müller, di ritorno da un viaggio in Francia, a introdurre in Toscana le novità pittoriche degli impressionisti e sarà proprio il ritrattista Corcos uno dei maggiori esponenti del movimento, conosciuto in particolare per i realistici ritratti (dalle fanciulle dell’alta borghesia alle dame della nobiltà, dalle personalità emergenti come il giovane Pietro Mascagni ad altre di chiara fama come Emilio Treves e Giosuè Carduccine, ne eseguì pure uno all’ultimo Kaiser di Germania, Guglielmo II e alla sua consorte, oltre che alle regine Amelia di Portogallo e alla regina Margherita di Savoia).

In uno spazio senza tempo i tre giovani di In lettura sul mare, sembrano posare impegnati in un colloquio negato e silenzioso di immagini, pensieri, idee e ideali che forse si è avviato in loro dalla lettura di alcuni volumi dalla copertina gialla propri dell’edizioni Flammarion, sgualciti, perché letti e riletti. Nel dipinto la figura femminile è Ada, figlia di prime nozze della moglie, unica rispetto agli altri ritrattati, ammalia lo sguardo dell’osservatore con il suo piglio sicuro e risoluto, prendendosi il ruolo indiscussa di protagonista. Gli altri due giovani appaiono a complemento della scena: quello posto sulla sinistra, in impeccabile abito bianco – colore che accomuna l’abbigliamento dei tre protagonisti e che caratterizza la moda della Belle Époque – appare elegantemente sdraiato su una ampio parapetto, intessuto di lapidei decori liberty, e sembra non si sia accorto di nulla, tanto è assorto nella lettura di un libro. L’altro, seduto con il busto reclinato in avanti e le mani incrociate, appare in uno stato di sospensione – attesa, forse ha appena terminato di ascoltare le interessanti riflessioni della bella Ada o forse sta guardando la costa toscana, immerso in pensieri che non ci è dato sapere. Intanto mentre i tre giovani rimangono per l’eternità accarezzati da quella brezza estiva che si alza quando si avvicina il tramonto.

Fiore (pennarello su carta)

Benedetta 

“Lady Godiva” – John Maler Collier

8 Marzo: festa delle donne? No. Oggi è il giorno in cui sono ritornata a scrivere per il Cittadino Imperfetto. Raccontare che fine avessi fatto, sarebbe lungo e poco pertinente. Quello che voglio dire io oggi con il dipinto che vi propongo  è questo: ma non ce l’avete un’altra cosa utile da fare, voi che andate alla Sagra degli Uomini Unti stasera? La chiudo qui, sia chiaro. Ma per me essere una donna è altro. E non ho bisogno di una festicciola per dimostrarlo, così come fece questa donna rappresentata da John Collier. C’è una canzone dei Queen del 1981 , “Don’t Stop me now”, che dice “I’m a racing car passing by like Lady Godiva”... 
Immagine
ca.1898, 142,2 x 183 cm, olio su tela, Herbert Art Gallery (Coventry)

Verità o leggenda? Questo non si sa perché, ai tempi, non c’erano la Venier e la D’Urso a fare interviste. Si narra che a Coventry, in un’Inghilterra medievale di cavalieri e monasteri, vivevano il conte Leofrico e la sua bellissima moglie Godiva. La contessa di Coventry era già ricca prima del matrimonio (forse, perché era rimasta vedova) e la sua bellezza era profetizzata dal suo nome, Godiva, la latinizzazione di Godifu (God gift), ossia Dono di Dio. La storia, tra leggenda e presunti falsi storici, infatti, la descrive come una benefattrice e l’episodio dipinto da Collier ne sarebbe una prova.

La situazione non ci dovrebbe sembrare così incomprensibile. Il Conte di Coventry si era inventato un nuovo salatissimo tributo da far pagare ai sudditi già in ginocchio, allora, la  sua signora, intestarditasi, gli disse “Facciamo una scommessa: se io vado in giro nuda per  la città come Sara Tommasi, tu ti scordi di questa nuova tassa”. Lui, sicurissimo che sua moglie avesse conservato un minimo di moralità, la sfidò e, così, dovette pure inventarsi una legge che vietava alla popolazione di stare in strada o di guardare dalla finestra mentre la sua mentre la sua cara e dolce Godiva si faceva una passeggiata a cavallo come mamma l’aveva fatta.  Si dice che l’unico che trasgredì al divieto fu un certo Peeping Tom che, tra l’altro, rimase abbagliato da cotanta bellezza e diventò cieco. Da qui la tiritera secondo la quale i turpi hanno bisogno di un bravo oculista. Lady Godiva, infine, è anche protettrice degli Ingegneri, ma le ragioni sono ancora ignote. Lascio a voi il compito dell’ardua sentenza.

La tavolozza del dipinto è molto semplice e schematica. Abbiamo in primo piano un cavallo vestito di un rosso che rimanda alla festa, ma anche a una parata, qualcosa di nobile e istituzionale. Sullo sfondo, invece, una realistica città non grigia, ma color mattone, della quale percepiamo le torri dei palazzi in lontananza, come se Lady Godiva camminasse tra le strade abbandonate come la Lucy di W. Wordsworth  Eppure, quello che stranisce ancora oggi di questo quadro è la sensuale, ma anche composta, nudità della protagonista, come scrisse un’altro decadente, i G. D’Annunzio, “immensa appare, immensa nudità”. Forse, dicono gli storici, Godiva non era davvero nuda nella leggenda: poteva essere spoglia dei suoi gioielli, oppure munita solo della trasparente veste dei penitenti (assomigliava a degli slip, più o meno). Eppure, la pelle eburnea di questa giovane donna già sicura di sé, appare  da “fairy”, da fata dei boschi, e anche sacra, come quella di una vestale, ma, comunque, anche semplice e concreta, appunto ardente e selvaggia come l’Estate descritta da Gabriele D’Annunzio. E noi, come osservatori, siamo tutti dei Peeping Tom, dei guardoni, che, come lui, siamo solo dei poveri sarti che impieghiamo le nostre giornate a nascondere di stoffa ciò che è palese, puro e meraviglioso.

Il nostro pittore proveniva da una famiglia di successo, di cui tanti membri erano funzionari di Stato, ed ebbe un doppio matrimonio: una volta morta la prima moglie, Mady, sposò Ethel, sua sorella. Suo suocero era il famoso biologo Thomas Huxley, teorizzatore dell’Agnosticismo che John Collier fece proprio con l’idea che la nostra non è religione, ma solo superstizione, perché, se il Dio che osanniamo è capace di condannare l’uomo turpe alla tortura eterna, allora è lui quello crudele. Purtroppo, come pittore, fece meno fortuna degli altri  colleghi del suo tempo, probabilmente perché più sintetico e, paradossalmente, più fresco.

John Maler Collier, in senso lato, può essere annoverato tra i membri della Confraternita dei Preraffaelliti, nata in contemporanea con il decadentismo di Oscar Wilde in letteratura. Dirsi confratelli voleva dire conferire a un semplice gruppo di artisti le accezioni misteriche di una setta; invocare “San” Raffaello serviva per essere critici ed agnostici davanti a tutti quei pittori, troppo accademici, conformi a regole standardizzate, che non imitavano più la stessa freschezza dei dipinti rinascimentali in stile raffaelliano. Dietro alla loro poetica vi era un messaggio sociale preciso che fu anche un preambolo al Romanticismo, specie quello dei Nazareni tedeschi con il loro patriottismo quasi religioso. Siamo nell’Età vittoriana: donne potenti bardate fino al collo con peccaminose chiome rosse  (in realtà, fu la Chiesa cattolica ad attribuire la cattiveria a chi era “rosso di capelli”, come ci ricorda G. Verga : nell’Inghilterra protestante era facile trovare questo genotipo tra la popolazione), il duro lavoro che porta il progresso ad una patria gloriosa. Così, anche temi religiosi come l’Annunciazione rimandano ad una buona novella, la rievocazione del Medioevo alla rettitudine ed ai valori e gli eroi tragici di W. Shakespeare. Non furono ben visti da tutti i critici, specie lo scrittore Charles Dickens, ma grazie alle due appassionate elegie di John Ruskin raggiunsero l’apice del successo nel 1851.

Quindi, la nostra storia gotica e fiabesca dipinta vuole essere una preghiera di un uomo moderno – e, in questo, molto preraffaellita  che spera che, un giorno, possa essere la verità nuda e cruda a regnare sul Mondo.

I met a lady in the meads,
Full beautiful, a fairy’s child;
Her hair was long, her foot was light,
And her eyes were wild.

“La Belle Dame sans Merci” – J. Keats

“Lo spirito sullo stelo” di P.Klee

Davvero fortunato l’adulto che riesce a comprendere che in sé debbano convivere sia la razionalità dell’età matura sia l’animo curioso del fanciullo. Che senso avrebbe la più elementare azione se fosse solo il frutto del cervello senza che il cuore abbia detta la sua.

L’innocente curiosità che dovrebbe spingerci oltre il confine dei nostri orizzonti deve essere coltivato come un’orchidea rarissima che richiede le cure più minuziose per poter fiorire nella serra del nostro essere. I più coloro che si lasciano alle spalle la magia della propria infanzia quale tributo a una maturità tanto decantata e apprezzata da chi vorrebbe che il grigiore della normalità fosse il colore degli umani affanni.

C’è chi nella pittura è riuscito ad immortalare nell’elementare semplicità di un disegno infantile, l’enigmatica figura archetipica evoca l’immagine del genio della fanciullezza che alberga nel cuore di ogni uomo creativo. 220px-Paul_Klee_1911

Giusto a  cavallo dei conflitti mondiali del XX° secolo, in un periodo in cui la forza della sperimentazione pittorica non aveva ancora esaurito la sua potenza per chinare la testa al conformismo dell’arte consumista, l’eclettico pittore tedesco Erns Paul Klee (1879-1940)  figlio di musicisti ed esponente dell’astrattismo, durante la sua ricerca di sintesi dell’aspetto teorico della sua creatività che lo porta a utilizzare molteplici supporti, che vanno dalla tradizionale tela alla carta di giornale, alla juta, a cartoncini di ogni qualità e spessore, dipinge un’opera che da senso all’importanza dello sguardo del fanciullo.

Lo spirito sullo steloScrive Klee: “I bambini… offrono esempi istruttivi e vanno preservati per tempo dalla corruzione”. Il “fanciullino” potrà così più a lungo conservarsi intatto come espressione dell’età dell’innocenza nell’anima creativa dell’adulto.

“Lo Spirito sullo stelo” è un’opera che affascina per il suo approccio elementare eppur così potente da incantare lo spettatore con il fanciullo colto mentre sgrana gli occhi davanti alla complessità della vita.

Una di quelle piccole (30x19cm) opere secondarie capaci di comunicare l’essenza del messaggio artistico con più enfasi delle opere più “grandi”.

Appena ho visto questo olio su tela ne sono rimasto affascinato così come lo fu a suo tempo il compianto Rambaldi che alla ricerca dell’alieno per Spielberg trovò nell’infantile incanto del fanciullo di Klee l’ispirazione per creare quell’E.T. che avrebbe impersonato nell’immaginario collettivo non tanto l’extraterrestre, ma il viaggiatore di mondi capace di umani sentimenti, innocente ed effimero come un bambino curioso.

Le tre età della donna – Gustav Klimt

La mamma è una cosa seria. Essa si sacrifica da quando noi nasciamo. Essa produce il latte per noi. Quando siamo piccoli produce il latte, perché è un mammifero: per ciò si chiama mamma… – “Io speriamo che me la cavo”

Non potevo che esordire così, con le battute naif tratte dal mio film preferito. Perché la mamma è davvero un animale capace di tutto. Ti tiene dentro di sé per 9 mesi infischiandosi delle diete e della moda. Ti insegna a camminare. Piange con te se non vuoi andare all’asilo, ma poi, ferma, ti spiega che ci devi stare lì per il tuo bene. Ti insegna a cucinare e, se proprio sei un caso pietoso come me, ti insegna come convincere un uomo a cucinare per te. Perché la mamma è, prima di tutto, una donna che nella sua maternità (stavo per scrivere mammosità e mi piaceva pure questo neologismo)  ha accentuato una dote che le è stata regalata alla nascita: la pazienza. Lei che è abituata a vedersi cambiare con il ciclo delle stagioni, ha imparato anche ad aspettarci, durante la gravidanza, durante le notti brave, durante la nostra perenne follia. Lei che ci ha insegnato a camminare, ci ha anche sostenuto in quei momenti che non sembravano voler filare nel modo giusto. Lei che non ci giudica, ma è sempre pronta ad avvertirci giusto un secondo prima che cadiamo e ci facciamo male. Lei che ci sarà per sempre, anche quando ci sentiremo troppo cresciuti per avere ancora bisogno di lei, anche se siamo nati storti, cercatori di guai, per lei rimarremo sempre i più…meglio. Lei che imparerà a stare dietro le quinte, ma che sarà sempre la persona che ha sacrificato del suo tempo per farcene guadagnare a noi. 

E’ con questa riflessione che Klimt giunge all’apogeo della sua carriera da pittore. Gustav Klimt Vienna 1862-1918, è stato il padre della Secessione austriaca: voleva darci un taglio proprio con l’arte accademica che l’aveva fatto nascere come un talentuoso pittore d’impressioni en plein air. Rielabora l’ornamentalità dell’arte giapponese, che gli era tanto piaciuta e, per reinventare quella che era diventata una moda, ne tira fuori quello che ci fa dire ancora oggi – appassionati di arte e non- questo dev’essere propro un Klimt. Il tema prediletto è quello della delicata sfera femminile: l’infanzia, la maternità, l’amore “troppo umano” e la vecchiaia, condito da una tragicità infinita che anticipa la disperazione, l’erotismo cupo, di Kokoshka e Schiele, i suoi allievi.

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Die drei Lebensalter – 1905 – olio su tela, 180x180cm – Museo Nazionale d’Arte Moderna (Roma)

Le figure sintetiche, i celebri sarcofagi klimtiani, si materializzano sul fondo geometrico che ricorda l’oro, le sete raffinate e le pietre preziose. Questo intreccio ornamentale vuole essere un’illusione per fondere insieme l’architettura alla pittura. Per farlo, il pittore utilizza le tecniche dell’arte applicata: le foglie d’oro e d’argento, il collage e il mosaico.  Con questo gioco di volumi, un riprendere sia l’horror vacui (la paura del vuoto tipica del troppo pieno del medioevo barbarico) sia la molecolarità del puntinismo, ottiene una luminosità che si riscatta da colori colori spenti, saturi, come se per avere del virtuosismo bisognasse rinunciare alla naturalità, come se si sapesse già in partenza che la perfezione e l’arte in realtà non esistono che nella nostra spaziosa mente illusoria.

Questa tela, un’accozzaglia di equilibri cercati a forza, segue il ritmo della vita. I colori, contraddizioni di inesteticità ben mescolate tra loro (come a ricordarci la psiche femminile), vanno da quelli teneri della fanciulla, a quelli sensuali della madre adulta, fino a giungere a quelli consumati dell’anziana donna vissuta, la saggia. Allegoricamente, Klimt vuole rappresentare un cammino di vita che va dalla spensieratezza, all’amore intenso, fino alla solitudine e al raccoglimento del ricordo. La ragazzina ha vissuto un sogno, aggrappandosi alla madre la quale, a sua volta, china sulla figlia, si è unita a lei formando un tutt’uno (rappresentato dalle stoffe che le legano insieme). Ma dopo il tempo di una vita, questa donna, rimasta sola (però serena), vive l’ultima parte della sua vita, quella argentea e spirituale che la porterà verso il baratro nero della morte. Da notare, che tutte le tre figure non possono vedere, sono cieche: la prima non ne ha interesse, la seconda non vuole vedere il tempo che passa, la terza non vuole ricordare. Essere madre: condizione beata, oppure un sacrificio troppo grande, a conti fatti, per una vita così breve? Klimt non si sbilancia, ci enumera i pro e i contro, ma – essendo anche un uomo- lascia a noi la scelta.

Klimt sembra essere il maestro dell’esasperazione, ma da maestro ne sa fare un monumento, quello della storia di una vita. Questa donna, che sembra la madre di tutte le donne, sta in silenzio e osserva gli altri e sé stessa. Nell’età della giovinezza ha guardato con occhi vividi e spalancati l’inconsistenza della sua bellezza, da madre è stata vigile e attenta, china sulla progenie e, oggi, in vecchiaia, si sta facendo sempre più da parte, sempre più indifferente, sempre più conscia del suo incredibile sacrificio, una specie di Cristo in croce al femminile. Si può dire che Klimt sia stato uno dei pochi artisti a scindere la donna dall’allegoria di angelo – demone dell’amore, capace di elevarla a madre, nel suo senso più terreno e passionale, tra gli errori e rimpianti, ma sempre un essere originario e privilegiato.

Auguri mamma (in ritardo, come sempre)!

La Morte di Marat – Jaques Louis David

A me, personalmente, quelli che parlano troppo di politica non MI piacciono (e scusate il francesismo). Che ne so, mi sembrano quei bambini che, faziosi, appiccicano le figurine sull’album Panini (che nemmeno esiste più, ma sto diventando vecchia pure io – mannaggia!). Io preferisco chi fa politica e che, nonostante il colore della sua cravatta -che sia delfino, trota o pesce palla-, la faccia bene e onestamente. Politica vuol dire governare la società, menare il pascolo, fare il gregario della combriccola. We are family, si cantava. E queste sono cose dette e stradette, per questo mi scuso. Vogliate anche perdonarmi il fatto che mi metto pure io a fare comizio, ma, davvero…si sta arrivando all’ammazzacaffé qui in Italia. Dicono che presto ci sarà la Rivoluzione perchè va a finire così quando un paese cola a picco come il Titanic con l’orchestrina di turno che imperterrita continua a suonare, che appiccheranno un bel falò a Roma, ma io ho i miei dubbi visti i prezzi della benzina. Perchè poi, diciamocelo, una volta fatta la bagarre, chi ci mettiamo a capitanare la nostra bella nave? Un altro Schettino? Credetemi, io sono per la Rivoluzione, ma temo la Guerra. E non per il sangue, che le caratterizza entrambe, ma per la mancanza di piani e d’idee.

Ad esempio, mettiamo il caso che tu sia Jean Paul Marat. Sei di nazionalità francese, ti stai prodigando nel sociale per il tuo Paese che ami e per il quale tu daresti la vita. Di professione fai il rivoluzionario e, un po’ come tutti, sei sottopagato per le responsabilità che ti devi prendere, ma, come si dice, il mondo gira così. Le testate ti descrivono come l’amico del popolo, tu sei pure un po’ timido e fai il modesto. Eppure, questa è Storia, tu sei uno dei rappresentanti di quel radicalismo rivoluzionario che ha portato i Montagnardi (repubblicani radicali) ad avere la meglio sui Girondini (repubblicani federalisti), così a soldoni. Ma tu non ti monti tanto la testa e, ogni sera, come ti ha raccomandato il medico per curare la tua dermatite, ti immergi nella tua vasca e ti rilassi. Vai tu a sapere che quella biondina del tuo partito opposto, la Carlotta, che ti ha chiesto la grazia, che ti ha pure inviato una lettera profumata di acqua di rose, in realtà ti sta tendendo un tranello e ti sta pure pugnalando! E’ il 13 Luglio 1793 e la tua morte sta per essere considerata un attentato contro la nuova Costituzione.

"Marat assassiné" - 1793 - olio su tela 165x125cm- Musée Royaux des Beaux Arts (Bruxelles)

Jaques Louis David (Parigi, 1748 – Bruxelles, 1825) , in questa istantanea  dipinge un cordoglio che va oltre al voler far politica perché lui conosceva personalmente Marat, come testimonia l’iscrizione sul comodino, quasi una dedica. Il dipinto, che ci colpisce per la sua essenzialità, come quando si dipinge un Cristo che muore per espiare i peccati dell’Umanità, ospita un corpo agonizzante in primissimo piano che si stacca con violenza da un fondo volutamente scuro in verde-marrone. La testa, avvolta in un turbante, pende a lato. La mano destra è ancora pronta a scrivere, mentre quella sinistra giace immobile su un drappo verde. Siamo sulla scena del crimine: il sangue ha sporcato sia il panno bianco nella vasca, sia l’arma, il pugnale che è stato abbandonato per terra. Sono questi i colori che spiccano: il rosso sangue, il bianco puro e il verde  del veleno (che è anche il colore dei valori puri, della perseveranza).

L’appartenenza del David alla scuola del Winkelman, quella neoclassica, è qui più che palese. Nelle sue pennellate accademiche, l’artista ci pone davanti ad un uomo che, come gli eroi greci, sorride davanti alla morte: è sereno, non spaventato. Tra l’altro, reduce dai suoi viaggi in Italia, fa un tributo a Caravaggio rappresentando con crudezza la realtà di un Marat speculare al suo Cristo nella “Deposizione“. Con questa tecnica laconica, l’artista politicamente coinvolto, vuole procedere a santificare laicamente un rivoluzionario, un martire della libertà e, non a caso, ispirò artisti come C. Baudelaire, Stendhal, E. Munch o P. Picasso.

Nel corso della storia dell’Arte, ci si è spesso chiesti se l’arte potesse essere anche manifesto politico o dovesse limitarsi alla più frivola materia estetica: J.L. David, specie dopo la Rivoluzione del 1789, scelse di essere coerente con il suo impegno sociale preso con i Giacobini (ancora più radicali dei montagnardi: in pratica, sostenevano – assieme a Robespierre- che chi non voleva la libertà doveva essere ucciso, con i quali anche il re). In questo quadro, utilizza la sua neoclassicità, la stessa con cui ci aveva raccontato di Napoleone o delle vicende vere o mitiche dell’antichità, per elevare un avvenimento contemporaneo a Storia. In questo modo, mescola la rappresentazione naturalistica di un fatto (ad esempio il sangue, ma anche la lettera e la dermatite) con l’idealizzazione (il rendere più che reale, mitico) propria della pittura a tema storico: la luce che illumina in diagonale illumina il comodino di legno (che pare una lapide con corollario di epitaffio) e il corpo nudo, allegoria di un Cristo morto per il suo Paese. Il primo titolo pensato dall’autore, infatti, era “Marat à son dernier soupir“: solennità, verità, rammarico, sono queste le caratteristiche di un quadro che fa politica. Quanti di noi hanno imparato ad andare in bicicletta senza sbucciarsi le ginocchia?

“Cittadini, vorreste una rivoluzione senza rivoluzione?” –  Maximilien de Robespierre.

Georgia O’Keefe – Grey Blue and Black Pink Circle

Non tanto tempo fa, in un’inaspettata disquisizione culturale, mi è stato detto che Georgia è un’artista di nicchia. L’abile retore con il quale stavo discorrendo mi giustificò la sua affermazione con la scusa (neanche tanto inventata) che noi Europei facciamo fatica ad accettare come artisti i colleghi d’Oltreoceano. Io, che non possiedo grandi doti dialettiche, ma che fatico a starmene zitta, gli ho detto, senza mezzi termini, che secondo me non la conosceva soltanto perché la Georgia non è un Giorgio, perché, d’altronde, quest’artista è stata ospitata in mostra da ottobre a gennaio a Palazzo Cipolla grazie alla Fondazione Roma. Mi spiegherò meglio, molta gente fa meno fatica a ricordarsi la farfallina di Belen Rodriguez piuttosto che in che cosa sia laureata Rita Levi Montalcini o, artisticamente parlando, che Rosalba Carriera non ha niente da invidiare a Giambattista Tiepolo. Non aprirò parentesi, ma per questo mese di marzo voglio celebrare la donna che non ha bisogno di ometti oliati come se fossero polli pronti da infornare per sentirsi tale e stare bene con sé stessa. 

Georgia O’Keefe(Sun Prairie, 1887 – Santa Fé, 1986), la Signora degli Iris e delle Petunie: non èRitratto (foto di A. Steiglitz) difficile capire chi fosse dati i ritratti fotografici che le fece suo marito, il famoso fotografo Alfred Steiglitz. Magra, ossuta ma non malata, intrinsecamente sensuale, l’eccellenza dell’American beauty, della donna libera e fatale. Contrariamente a quanto si può leggere in giro per il web, non soffriva “di nervi”, piuttosto di emicrania cronica e, forse anche per questo, non aveva un carattere facile ( era nevrotica, inquieta, emotiva: un cavallo pazzo), tuttavia apprezzava le cose semplici e diceva che era l’interesse a muoverle la vita poiché la felicità era troppo effimera per esserlo. Per tutta la vita negò che l’influsso di suo marito fu basilare nel suo sviluppo artistico, sebbene, non solo si conobbero ad un vernissage, ma fu proprio lo Steiglitz ad inserirla nell’American Artists Society. Tra l’altro, dato che è noto che due artisti non possono condividere lo stesso tetto come due cuori e una capanna, fu proprio suo marito a fare in modo che la critica interpretasse la sua opera in una chiave direzionata solo verso all’esibizione sessuale (questo vendeva di più, anche a i tempi). In verità, lei voleva far passare solo un’arte fortemente espressiva che, con il suo potere, voleva anche, ma non solo, includere una sessualità pura.

1929 - 92x122 cm ca. - olio su tela - Museum of Art (Dallas)

Il volersi riallacciare all’arte giapponese e all’astrattismo spirituale di stampo kandiskijano non passa inosservato, sebbene l’OK’s Style lo reinterpreti. In una maniera del tutto femminile, viene unita la figurazione (è chiaramente intuibili che i soggetti sono dei fiori) all’astrazione (perché i fiori vengono trasfigurati e, così, diventano simboli di qualcosa di più grande). Ciò che rende possibile questo dualismo è il nuovo punto di vista: i fiori vengono rappresentati macroscopicamte, creando un’atmosfera surreale di panteismo intensificato.

Questa tela arriva al culmine Continua a leggere

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